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Aldo Morrone – Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995

Prefazione (Marcello Fazio)

Introduzione (Aldo Morrone)

1. La salute degli immigrati in Italia (Salvatore Geraci)

Immigrazione in Italia
I dati ufficiali
Oltre le cifre
Immigrazione e salute: aspetti normativi
Considerazioni di politica sanitaria
Medicina e migrazioni: stato attuale
Immigrazione, salute e cultura
La medicina transculturale

2. Le malattie degli immigrati (Aldo Morrone,Salvatore Geraci)

Premessa
L’ambulatorio per immigrati del san gallicano
Il poliambulatorio per immigrati della Caritas di Roma
Un osservatorio privilegiato
L’utenza
Le malattie
La tubercolosi
Migrazione, stress e alimentazione
La patologia cutanea
La patologia venerea

3. Cultura, salute, immigrazione: un esempio di interdipendenza (Gioia Di Cristofaro Longo)

Quadro di riferimento teorico
Il terreno di coltura del pregiudizio
La ricerca sul disagio culturale in rapporto all’insorgenza delle malattie

4. Il bambino straniero e il pediatra (Maria Edoarda Trillò, Aldo Morrone, Salvatore Geraci)

Presenza di bambini stranieri in Italia
Bambini stranieri e scuola
Bambini stranieri e figli di immigrati: una chiave di lettura
Bambini immigrati e domanda di salute
Linee guida per l’approccio al bambino straniero
Il bilancio di salute nel bambino nato all’estero
Accertamenti consigliati

5. Donne e bambini di altri paesi (Maria Edoarda Trillò, Aldo Morrone, Salvatore Geraci)

Immigrazione al femminile
Una presenza sempre più visibile
Tradizioni e valori da non perdere
La salute della donna e dei bambini
Pratiche escissorie
Donne immigrate e servizi sanitari

6. Aspettare un figlio in un paese straniero (Isa Buonomini, Mauro Valeri, Aldo Morrone)

Introduzione
Il campione esaminato
I colloqui
Le caratteristiche sociologiche delle utenti
Considerazioni sul progetto di gravidanza
Conclusioni

7. Immigrati e malattie cutanee (Aldo Morrone)

Immigrazione: tra mito e realtà
Epidermide
Derma
Nuances della pelle nera
Funzioni del rivestimento cutaneo
Elementi di dermatologia su pelle nera
Alterazioni della pigmentazione su pelle nera
Principali patologie cutanee di natura batterica, virale, micotica e protozoaria
Dermatiti da contatto
Fitodermatiti
Orticaria
Lichen ruber planus
Lupus eritematoso e sclerodermia
Tossidermie
Pemfigo foliaceo africano
Pityriasis rosea di Gibert
Paracheratosi infettive nel bambino
Psoriasi
Affezioni cutanee legate alla malnutrizione
Cheratosi seborroiche
Xantomatosi
Neoplasie della cute
Melanoma
Sarcoma di Kaposi
Malattie sessualmente trasmissibili

8. La malattia di Hansen tra mito e realtà (Carlo Travaglino, Aldo Morrone)

Introduzione
Notizie storiche
Definizione ed eziopatogenesi
Classificazione clinica
Caratteristiche cliniche delle varie forme
Alcune localizzazioni interne del Mycobacterium leprae
Diagnosi
Terapia
Trattamento farmacologico
Leproreazioni
Immigrazione e malattia di Hansen

9. Ambiente, cultura e salute nei rapporti nord-sud (Josè Ramos Regidor, Aldo Morrone)

Punti di vista del sud e crisi della nostra civiltà
Passaggio di civiltà
Verso un’etica socio-ecologica, intersoggettiva e interculturale
Rapporto tra le culture
La crisi della scienza moderna
Salute, ambiente, sviluppo e cultura

10. Per non concludere: aspetti etici (Dalmazio Mongillo)

Normativa giuridica e diritto alla salute
Appartenenza all’umanità e diritto a esistere
Obiezione di coscienza

Dignità del malato

Appendici

Bibliografia

 

INTRODUZIONE

IMMIGRAZIONE E NORD-SUD DEL PIANETA

Nel dibattito che si è aperto in questi anni sul fenomeno dell’immigrazione troppo spesso si è rinunciato a un’analisi più elaborata sul piano storico e culturale di questi eventi. Non si sono mai volute approfondire le reali cause politiche, economiche e storiche che conducono oggi milioni di poveri, di esclusi dalla storia a lasciare la propria terra di origine, per cercare di riappropriarsi di una parte di quella ricchezza di cui sono stati violentemente espropriati in un passato non troppo remoto. I punti di vista del sud del mondo, le ragioni dei tre quarti degli abitanti del nostro pianeta continuano a essere ignorati dal nord, cioè da quel quarto che consuma l’80% delle ricchezze di tutti.

Troppe volte, in un’ottica culturale unilaterale, ci siamo limitati a un’analisi eurocentrica e androcentrica, ignorando completamente le ragioni delle rivendicazioni del sud del mondo, prigionieri come siamo del mito della nostra superiorità.

Oggi i settori più attenti e sensibili della società civile si interessano al problema dell’immigrazione cercando di dare risposte concrete a situazioni di disagio e sofferenza, per rendere questo “esodo biblico” il meno doloroso possibile. Eppure, talvolta ancora si coglie in questo atteggiamento un’accondiscendenza culturale al mito dell’uomo bianco superiore, anche nella bontà, anche nella carità. È invece il bisogno di giustizia del sud, il desiderio di una vita dignitosa per tutti nel nuovo “villaggio globale” che deve porre oggi in crisi i nostri modelli culturali, economici e politici. La crisi della nostra civiltà, che non riesce a trovare neppure uno spiraglio di soluzione al tragico genocidio che si sta compiendo accanto a noi, a pochi chilometri di distanza nei territori dell’ex Iugoslavia, è ormai irreversibile. Questo nostro modello di sviluppo ha creato troppa esclusione, sofferenza, ingiustizia, per poter essere ancora utilizzato nella progettazione del futuro.

Si fa sempre più urgente la creazione di un nuovo modello etico, culturale ed economico che privilegi la vita di tutti, a partire da quella dei più deboli, emarginati e sofferenti.

Il rispetto della natura, degli esseri umani nella loro diversità di uomini, donne e bambini, la ricerca della pace per tutti, di una nuova qualità della vita deve essere il nostro imperativo categorico.

CULTURA E SALUTE

Si è pensato per molto tempo che il concetto di “salute” fosse ben definito dall’espressione “assenza di malattie”, “star bene”, cioè non essere malati. Oggi ci si è resi conto che la salute non può esaurirsi semplicemente nell’assenza di malattie e la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha sentito il dovere di definire la salute come “la realizzazione per tutte le donne e gli uomini di tutte le proprie potenzialità fisiche, psichiche e culturali”. Solo quando le persone si realizzano completamente si può parlare di persone sane.

Nell’Homo sapiens, “sano” è un aggettivo che qualifica azioni culturali, etiche e politiche. Almeno in parte la salute di una persona, e quindi di un popolo, dipende dal modo in cui la cultura, la politica e la società condizionano l’ambiente e creano quelle circostanze che favoriscono in tutti e specialmente nei più deboli la fiducia in se stessi, l’autonomia, la dignità di esseri umani. Di conseguenza, la salute tocca i suoi livelli ottimali là dove l’ambiente genera nelle persone la capacità di far fronte alla vita in modo autonomo e responsabile. La salute in questo senso equivale al grado di cultura e di libertà vissuta (Illich, 1976).

La salute designa un processo di adattamento. Esprime la capacità di adattarsi alle modifiche dell’ambiente, di crescere e di invecchiare, di guarire quando si subisce un danno, di soffrire e di attendere più o meno serenamente la morte. La salute abbraccia anche il futuro e perciò comprende l’angoscia e le risorse interiori per vivere con essa. Esprime un processo di cui ognuno è responsabile, anche se solo parzialmente (Illich, 1976).

Godere di buona salute significa non soltanto riuscire a fronteggiare la realtà, ma anche gioire di questa riuscita, significa esser capaci di sentirsi vivi nel piacere e nel dolore, significa fondamentalmente “innamorarsi della vita”. La salute e la sofferenza come sensazioni vissute e consapevoli sono fenomeni propri degli uomini, che in ciò si distinguono dagli altri animali.

La salute è definita dallo stile con cui ciascuna società si esprime nell’arte di vivere, di gioire, di soffrire e di morire. Lo stile è immerso in un insieme complesso di simboli, valori e rappresentazioni, in base a cui l’uomo spiega e organizza la sua presenza nel mondo, qui e ora: è espressione della sua cultura (Di Cristofaro Longo, 1993).

Salute e cultura sono sostanzialmente la stessa realtà. Non si può parlare di salute fuori dell’ambito dell’autonomia della propria persona, delle proprie capacità culturali e umane. Ma questo non significa che la nostra salute dipenda esclusivamente da noi, in quanto noi non viviamo isolati l’uno dall’altro, ma viviamo tutti, nel bene o nel male, in relazione innanzitutto con noi stessi e poi con altre persone; l’uomo è un animale capace di intrecciare relazioni, e la positività di queste relazioni ne fa un essere umano autenticamente maturo. L’uomo, come scrive Weber, si trova impigliato nella rete di significati che egli stesso ha costruito.

DODICI ANNI DI MEDICINA MULTICULTURALE

Da oltre dodici anni, assieme al dottor Geraci e ai suoi collaboratori, lavoriamo con immigrati provenienti da tutti i paesi non appartenenti alla Unione europea, cercando di garantire loro il diritto alla salute, così come è sancito dall’articolo 32 della nostra Costituzione. Il nostro lavoro viene svolto in due strutture diverse: un organismo di volontariato cattolico, il Poliambulatorio della Caritas diocesana di Roma, e un istituto pubblico di ricovero e cura a carattere scientifico, l’Istituto dermosifilopatico Santa Maria e San Gallicano di Roma (IRCSS). Un lavoro duro, molte volte ostacolato da mancanza di risorse o attenzioni; un lavoro che ci ha permesso di maturare una specifica esperienza, un lavoro che ci ha immerso in un disagio culturale che spesso è causa di patologie nella popolazione immigrata, in particolare in chi vive sulla propria pelle anche un disagio di tipo sociale.

Da ciò la consapevolezza che tale realtà renda necessario un approfondimento interdisciplinare che connetta la sfera psico-antropologica, con particolare riferimento ai contenuti costitutivi e distintivi dell’identità culturale dell’immigrato, con quella più propriamente medico-sanitaria.

L’impatto tra culture diverse provoca, infatti, trasformazioni culturali significative, irrigidimenti, conflitti, incertezze, disorientamento da una parte, nuove conoscenze ed esperienze dall’altra, che sono il frutto di vere e proprie operazioni di “mediazione culturale”, che incidono sensibilmente sulle identità culturali soggette nel processo migratorio a profonde modificazioni. Se non si è in grado di cogliere tali dinamiche che comportano una nuova visione del mondo, una nuova originale sintesi culturale, assai difficile risulta comprendere gli elementi culturali che causano incertezze, stress e sfiducia. Tali aspetti contribuiscono notevolmente al manifestarsi delle malattie, ma anche a creare resistenze a curarle con terapie o metodi non riconosciuti perché non appartenenti alla propria cultura di riferimento.

Dai differenti dati clinici ed epidemiologici osservati, emerge una realtà sanitaria ben diversa da quanto normalmente si crede: la stragrande maggioranza degli immigrati è sostanzialmente sana e non presenta malattie degne di nota, almeno al suo ingresso in Italia, e questo appare evidente se si tiene conto del fatto che oltre il 70% degli immigrati ha meno di 30 anni e rappresenta la parte economicamente e culturalmente medio-alta del proprio paese d’origine. Essi invece cominciano ad ammalarsi a distanza di circa un anno dal loro arrivo, in gran parte a causa delle disagiate condizioni strutturali, igieniche, abitative, alimentari e psicologiche in cui sono costretti sovente a vivere in Italia.

Inoltre, è statisticamente irrilevante l’incidenza delle principali malattie tropicali d’importazione di cui spesso si teme il contagio.

In questo volume abbiamo raccolto i principali dati socio-sanitari che sono emersi dal lavoro di questi dodici anni, con particolare riguardo a quelli medici, epidemiologici e antropologici, convinti come siamo della profonda interconnessione che lega tra loro questi diversi aspetti.

Abbiamo cercato di fare un po’ di chiarezza, almeno sul piano dell’informazione scientifica, lasciando poi a ognuno la propria opinione sull’universo dell’immigrazione.

Abbiamo ritenuto utile offrire queste osservazioni a quanti – medici, infermieri, assistenti sociali, studenti di medicina – si trovano, nella loro quotidiana attività professionale, a doversi confrontare con la realtà dell’immigrazione.

DIRITTO ALLA SALUTE

L’articolo 32 della Costituzione italiana afferma: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Inoltre i cittadini devono collaborare al mantenimento della salute, sia osservando i comportamenti richiesti nell’interesse collettivo, sia partecipando alle spese necessarie, in rapporto alla loro diversa capacità contributiva (articolo 53 della Costituzione italiana). È bene ricordare ancora che l’articolo 3 sottolinea che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

A livello internazionale il diritto alla tutela della salute è garantito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata il 10 dicembre 1948 a New York dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. L’articolo 1 afferma: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di Fratellanza”. L’articolo 2 precisa: “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”. L’articolo 13, comma 2, puntualizza: “Ogni individuo ha il diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese”. L’articolo 14 sottolinea: “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”. Ma per quanto riguarda la storia della nostra esperienza, è soprattutto l’articolo 25, 1° e 2° comma, che ci fa riflettere molto: “Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; e ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”.

La salute come diritto inalienabile degli individui è inoltre ribadita dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966 dove, all’articolo 12, si afferma: “Ogni straniero che vive nel nostro paese ha il diritto di godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale che sia in grado di conseguire”. Lo stesso diritto viene riaffermato dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, sempre del 1966. La Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo riconoscono ulteriormente il diritto alla salute per tutte le persone, senza distinzioni di sesso, religione, razza, lingua, cittadinanza.

Le norme giuridiche internazionali riconoscono quindi che ogni essere umano possiede diritti innati, cioè preesistenti alla stessa legge scritta, inviolabili, inalienabili e imprescrivibili. Tra i principali diritti sono da sottolineare il diritto alla vita, il diritto alla giustizia e alla salute.

MINORANZE

Spesso questi diritti affermati solennemente sulla carta non sono garantiti a tutte le persone nella vita quotidiana. È sufficiente infatti frequentare per un po’ le aule dei tribunali, dove si amministra la giustizia, o le corsie degli ospedali, dove viene erogata l’assistenza sanitaria, per comprendere la differenza, nel riconoscimento pieno dei diritti umani, tra persone appartenenti a classi socioeconomiche e culturali diverse.

È purtroppo noto come le minoranze, pur godendo sulla carta degli stessi diritti delle maggioranze, debbano faticosamente e quotidianamente lottare per vedere riconosciuti diritti ad altri ampiamente garantiti. Ma cosa s’intende esattamente per minoranze? E quali sono quelle emergenti in Italia in questo particolare momento storico?

La definizione di minoranza che più è accreditata in sede ufficiale è quella elaborata da Francesco Capotorti nel 1977 e contenuta nel Rapporto speciale della Commissione delle Nazioni Unite per la lotta contro la discriminazione e la protezione delle minoranze, dal titolo Étude des droits des personnes appartenants aux minorités ethniques, religieuses et linguistiques, che afferma: “Con il termine minoranza viene designato un gruppo che è numericamente inferiore al resto della popolazione di uno stato, in una posizione non dominante, i cui membri, essendo cittadini dello stato, possiedono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche che differiscono da quelle del resto della popolazione e mostrano, quanto meno implicitamente, un senso di solidarietà inteso a preservare la loro cultura, le tradizioni religiose o la lingua”. Una definizione diversa, ma altrettanto precisa e forse più vicina al tipo di “minoranza” da noi accolta e studiata, è quella proposta da Jay A. Sigler e contenuta nel volume Minority Rights del 1983.

Sigler ritiene che “nella sua forma più semplice si può definire minoranza qualsiasi gruppo di persone identificabili in un significativo segmento oggetto di pregiudizio o discriminazione, o che, a motivo di privazioni, richieda l’assistenza positiva dello stato. Una persistente posizione non dominante del gruppo in materia politica, sociale e culturale è caratteristica comune delle minoranze” (p. 5).

Tra le nuove minoranze emergenti oggi in Italia, possiamo annoverare senz’altro i cittadini immigrati provenienti dai paesi non appartenenti alla Unione europea, chiamati in modo non del tutto rispettoso ”extracomunitari”, e i nuovi poveri che, secondo gli studi condotti nel 1995 dalla Presidenza del consiglio dei ministri, avrebbero raggiunto la cifra di otto milioni e mezzo, costituiti in gran parte da gruppi di pensionati, famiglie a monoreddito, cassaintegrati e disoccupati. Anche altre persone possono temporaneamente o stabilmente entrare a far parte di gruppi di minoranza, si pensi per esempio alle persone che si ammalano, in particolare di malattie socialmente emarginanti come l’AIDS, la lebbra, la tubercolosi, o ai “barboni”, presenti in numero sempre maggiore nelle nostre grandi città.

In questa sede prenderemo però in esame solo la realtà dei cittadini immigrati dai paesi cosiddetti in via di sviluppo, paesi che, per essere più fedeli alla storia, dovremmo coraggiosamente chiamare “paesi impoveriti dall’Occidente”. In particolare, vogliamo indagare sul rapporto tra la loro presenza in Italia e il diritto alla salute, così come viene sancito dalle istituzioni e come invece viene garantito loro, nel vivere quotidiano, dalle strutture sanitarie pubbliche in Italia.

MIGRAZIONI E SALUTE

Le migrazioni sono fonte di stress e di pericoli per la salute, perché comportano una nuova organizzazione della vita con un conseguente totale sradicamento dall’ambiente di origine.

Il problema della medicina dell’emigrazione consiste nel dover assistere persone le cui condizioni sociosanitarie si stanno trasformando socialmente e culturalmente. Fin quando non sarà terminato il processo di acculturazione sanitaria e del passaggio dalla possibile patologia da migrazione al rischio di contrarre le malattie delle nazioni industrializzate, sarà necessario tenere presenti alcuni elementi:

1. La biculturalità dell’emigrante che lascia una cultura sanitaria senza averla abbandonata realmente e ne acquista un’altra senza averla ancora compresa.

2. La diversità della formazione del medico che è elemento dissonante nella relazione medico-paziente.

3. Le condizioni sociosanitarie peculiari presenti durante tutto il processo di migrazione. A tale proposito è necessario che tutti gli operatori sanitari superino il proprio spazio linguistico e culturale per poter acquisire un modello mentale che consenta di comunicare con pazienti eteroculturali.

Per quanto riguarda il rapporto tra malattie, sintomi, cultura e affinità etniche, non possiamo affermare di aver osservato una evidente correlazione tra specifiche patologie e determinati popoli o etnie.

Inoltre, sono risultate statisticamente irrilevanti le malattie tropicali d’importazione di cui spesso e in maniera assolutamente irrazionale l’opinione pubblica teme il contagio. Questi pazienti presentano invece un atteggiamento assai diverso dinanzi all’esperienza della malattia, del dolore, della sofferenza e della morte. La diversa percezione dei sintomi in rapporto alle differenti culture di provenienza è valida per tutte le popolazioni. E’ noto che gli italiani e gli ebrei, per esempio, a parità di quadro clinico, accusano un maggior numero di sintomi e i francesi prestano al fegato un’attenzione del tutto particolare, mentre l’attenzione degli iraniani è attirata dai disturbi cardiaci; i pazienti irlandesi invece si lamentano in particolare di disturbi agli occhi, alla testa e alle orecchie (Zola, 1966). Benché esistano varie malattie tipiche di determinate regioni del nostro pianeta e più frequenti in alcune etnie, si pensi per esempio al Kwashiorkor e al morbo di Kaposi non correlato all’infezione da HIV e alle treponematosi non veneree, è quasi sempre la fascia più povera delle diverse popolazioni che presenta un rischio maggiore di contrarre le malattie tipiche di quella regione, e questo indipendentemente dalla latitudine (Lionetti, 1993). Tutte le indagini clinicoscientifiche svolte in Europa sulla salute degli immigrati confermano che essi sono sostanzialmente sani proprio perché rappresentano la parte più sana e più giovane della popolazione, in grado di affrontare i rischi di viaggi spesso drammatici, quasi sempre ai limiti dell’avventura, talora mortali (Morrone, Passi, Fazio, 1992; Geraci, 1995).

Bisogna tenere conto che spesso gli immigrati usano delle metafore somatiche come la via più breve e facile all’espressione di emozioni e sentimenti altrimenti non comunicabili. Molto spesso accusano sintomi di tipo cenestopatico (cefalea, disturbi digestivi, dolori vaghi e diffusi, prurito, bruciori alla minzione, preoccupazioni sulla propria salute fisica), senza che vi siano riscontri somatici. Il processo di cambiamento cui deve fare fronte l’immigrato richiede una continua messa in crisi della propria identità storica o culturale. Si dirà che l’immigrato sa in anticipo che gli verrà richiesto un adattamento a situazioni completamente diverse e che questo comporterà un prezzo gravoso; non è tuttavia pensabile che l’anticipazione di una sofferenza sia sufficiente per eliminarla. È necessario che noi medici, che nell’incontro con pazienti provenienti da culture diverse corriamo spesso il rischio di fermarci al semplice ascolto delle metafore somatiche, diveniamo capaci di recepire, dall’insieme del loro costrutto, il senso profondo dei loro tentativi di recupero di una identità nuova (Frighi, 1990).

IMMIGRAZIONE ED ECONOMIA

È noto come l’economia sommersa prodotta dagli immigrati abbia contribuito alla ricchezza nel nostro paese, non lo abbia certo impoverito.

Secondo rilevazioni effettuate dall’ONU, nel 1989 le rimesse dei lavoratori immigrati erano pari a 66 miliardi di dollari USA, un’entità di denaro inferiore soltanto al valore del petrolio nel commercio internazionale e maggiore della somma spesa per l’assistenza internazionale allo sviluppo (46 miliardi dollari statunitensi) (Caritas Roma, 1994).

Nel nostro paese la Banca d’Italia ha cominciato a pubblicare i dati sulle rimesse degli immigrati a partire dal secondo semestre nel 1990. Il volume complessivo delle rimesse da 110.071 milioni nel 1991 è passato a 198.581 milioni nel 1992 (+ 80,41%) e a 245.625 milioni nel 1993 (·+ 23,69%). Ricordiamo come la mano d’opera italiana negli anni passati abbia contribuito alla crescita economica di paesi come la Germania, la Francia, il Belgio, gli Stati Uniti, l’Australia, l’Argentina, il Venezuela.

Gli immigrati giungono in Italia, in gran parte richiesti da quel mercato del lavoro nero, irregolare e supersfruttato che, in nome del profitto, concede la sopravvivenza a tutti gli affamati della terra. Ricordiamo inoltre che essi in gran parte “inventano” (si pensi ai lavavetri) o svolgono lavori in condizioni di supersfruttamento che i nostri concittadini ormai rifiutano. E sinceramente è incomprensibile come l’Italia, che ha ancora cinque milioni di cittadini emigrati all’estero e che quindi dovrebbe avere una sensibilità particolare nei confronti dell’emigrazione, abbia invece completamente perduto la memoria storica dei suoi figli affamati in cerca di fortuna in America, in Australia, nell’Europa del nord.

Bisogna ricordare che, fino al 1960 circa, l’Italia è stato un paese “molto italiano”, come afferma Andrea Riccardi della Comunità di Sant’Egidio, più omogeneo di quanto non lo fosse l’Italia del Seicento o del Settecento.

L’Italia si sta lentamente trasformando da antico paese di emigranti, in terra di approdo per immigrati. E bisogna ricordare che, a differenza della Svizzera. della Francia e dell’Inghilterra, l’Italia non ha una grande tradizione di terra di rifugio per profughi. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’Italia è stata più un paese di transito per profughi dell’est europeo che non di rifugio.

La Commissione italiana migrazione calcola, dal 1952 al 1984, 391.385 partenze di profughi per altri paesi. Ma solo negli ultimi anni c’è stato un aumento, peraltro statisticamente non significativo, della popolazione straniera legalmente residente.

Gli stranieri presenti a vario titolo in Italia al 1° gennaio 1994, secondo i dati del Ministero dell’interno, sono poco meno di un milione, di cui l’87% proveniente da paesi fuori dell’Unione europea. A questi andrebbero aggiunti, secondo diverse stime, circa 150-200.000 immigrati irregolari, cioè privi del permesso di soggiorno.

Quali conseguenze comporta questo fenomeno per 57 milioni di italiani? Quali responsabilità? Quali scelte? La spinta del sud del mondo è una spinta recente, ma certamente destinata ad aumentare lo squilibrio economico tra sud e nord del mondo. Inoltre la crisi demografica, in particolare dell’Italia, apre larghi spazi all’immigrazione. Ricordiamo che nel 2000 un cittadino nordafricano, cioè di un paese che non è tra i più poveri del sud del mondo, disporrà di un prodotto interno lordo di 2.182 dollari e un cittadino UE di 14.202 dollari. Considerate anche le ridotte distanze geografiche, si comprende bene quale sarà l’incentivo all’emigrazione.

L’immigrazione del sud è forse il modo meno drammatico in cui parte dei problemi del sud ricadono sul nord. Ricordiamo inoltre, a proposito del lavoro, come, pur rimanendo vera l’affermazione che in Italia c’è disoccupazione, sia altrettanto vero che in Italia il mondo del lavoro è molto frammentato. Vi è un eccesso di manodopera italiana qualificata, mentre vi è scarsa propensione da parte della manodopera italiana a svolgere mansioni poco qualificate o faticose. In presenza di una richiesta inevasa, quindi, si incanala l’offerta di manodopera immigrata.

Un altro problema grave è rappresentato dalla crescita zero presente in Italia. Come è noto, la popolazione mondiale aumenta in misura esponenziale. Essa si è raddoppiata negli ultimi quarant’anni; nel giro dei prossimi 15-16 anni crescerà ancora di un miliardo di esseri umani, raggiungendo nell’anno 2025 oltre otto miliardi. Ma l’incremento ha luogo in modo assai diverso da paese a paese: nullo o quasi nei paesi sviluppati, è esplosivo nei paesi poveri. Fra trent’anni la popolazione italiana potrebbe scendere dai 57 milioni attuali a circa 45 milioni, e la percentuale degli ultrasessantenni si aggirerà sul 30% del totale, mentre il gruppo di età 0-14 scenderà dal 18% attuale a circa il 12%. Le scuole si svuoteranno e si riempiranno gli ospedali e i ricoveri per gli anziani. È difficile immaginare come potrà funzionare un sistema socioeconomico nel quale una popolazione attiva ridotta dovrà mantenere una società di pensionati. Per fortuna, i vuoti lasciati da una mortalità superiore alla natalità verranno rapidamente riempiti. II progressivo e irrefrenabile impoverimento del sud induce a prevedere che l’eccesso di popolazioni povere si riverserà nel nostro paese.

Uno studio dell’Unione di Banche Svizzere (1994) basato su rilevazioni effettuate in 53 città del mondo, aiuta a capire meglio, pur nei limiti delle medie statistiche, quali siano le differenze di reddito tra un paese e l’altro, paragonando le retribuzioni, a parità di professione e qualifica, e il costo della vita, calcolato in base al prezzo dello stesso ammontare di beni e servizi. Le differenze sono molto alte:

Anzi saremo noi stessi che solleciteremo un loro arrivo per tenere in vita il nostro sistema economico e per assistere quanti, oggi non ancora quarantenni, entreranno nella terza età (CENSIS, 1993).

VERSO UN UOMO PLANETARIO

Per millenni abbiamo vissuto come se fossimo solo noi a scrivere la storia; gli altri popoli, quelli poveri, erano costretti a subirla. L’uomo occidentale si è sempre mosso in questa prospettiva: l’unica cultura, l’unica economia, l’unica politica, l’unica medicina è la sua, quella del nord, il sud del mondo deve subirla. Oggi che questo dominio sembra giunto al culmine, paradossalmente l’uomo occidentale ha paura, si sente minacciato nella sua identità dalla presenza di quegli uomini che lui aveva dominato e ai quali, senza scrupoli, aveva imposto la sua cultura, la sua lingua, la sua economia. Per “l’uomo bianco”. gli immigrati sono i nuovi barbari. Ma è vero? I greci hanno introdotto nella nostra cultura la parola “barbaro” che indica l’uomo che non sa parlare, cioè che non sa parlare la nostra lingua, che non possiede la nostra cultura e che quindi non sarebbe completamente uomo. Nel periodo illuministico abbiamo sostituito questa parola con “selvaggio”, che definisce i barbari che abitano le selve, mentre i cittadini abitano le città. Nel passato si riteneva che l’invasione dei barbari fosse stata provvidenziale perché necessaria affinché l’Europa potesse ravvivare la propria cultura; ma oggi i “nuovi barbari”, fortunatamente, non giungono da noi per ravvivare la nostra cultura in agonia: essi sono portatori di un’altra cultura, di una nuova alterità.

Abbiamo molto da imparare nell’incontro con l’altro, in particolare con lo “straniero”. Talvolta noi pensiamo di riconoscere l’altro come identico a noi, ma solo in vista dell’assimilazione: noi lo riconosciamo uomo come noi e perciò non gli resta che diventare come noi siamo. Si riconosce all’altro una pari dignità, ma semplicemente come presupposto di un’assimilazione a noi stessi. È il vecchio paternalismo occidentale da Capanna dello zio Tom!

Un altro modo sbagliato di confrontarci con l’altro è quello di riconoscere che il diverso ha anche lui dignità umana, ma a condizione che si mantenga nella sua inferiorità. Gli inglesi, per esempio, avevano un grande rispetto per gli indiani, purché essi si riconoscessero inferiori.

Oggi, grazie al fenomeno dell’immigrazione, possiamo cogliere una grande chance storica alle soglie del terzo millennio: riconoscere la diversità nell’uguaglianza. Ecco il compito storico, la sfida che si apre dinanzi a noi e per la quale non abbiamo ancora gli strumenti adatti. Siamo di fronte a una nuova realtà storica, a una possibilità autenticamente rivoluzionaria per tutta l’umanità: riconoscere la diversità nell’uguaglianza, a livello cosmico, cioè rinunciare definitivamente alla pretesa che l’Occidente sia punto di riferimento per tutti gli uomini.

Affermava Ernesto Balducci (1990): “Attraverso il dialogo attento con le altre culture, senza fare gerarchie prive di senso, possiamo riscoprire gli archetipi comuni, ritrovare il limite del nostro modello che presumeva di esaurire tutte le possibili forme umane e invece non è che una forma della inesauribile ricchezza con cui l’umanità può creare il proprio futuro come ha creato il proprio passato. Ciò non implica affatto la rinuncia alla nostra identità”. Il rapporto con l’alterità avviene attraverso una comprensione critica della propria identità; il che vuol dire anche “fedeltà alle proprie identità non come a un tutto che tutto in sé risolve, ma come a una parte che intende rapportarsi, con mutue fecondazioni, con le altre parti in cui l’umanità si è espressa” (Balducci, 1990).